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(it) Italy, FdCA, IL CANTIERE #37 - Combattere la rassegnazione, ripensare i modi della trasformazione rivoluzionaria - Alternativa libertaria/FdCA (ca, de, en, pt, tr) [traduzione automatica]
Date
Tue, 30 Sep 2025 07:36:01 +0300
Quante volte ci è capitato di pensare, vedendo i tanti film che parlano
della Shoah: “Ma com’è stato possibile che un tale orrore sia stato
commesso nella quasi totale indifferenza generale?”. ---- Ebbene, tra
50-100 anni, coloro che studieranno, leggeranno, rivedranno i documenti
del genocidio in corso a Gaza si porranno sicuramente la stessa domanda:
“Ma com’è stato possibile, cosa facevano nel resto del mondo di fronte a
questa tragedia?”. ---- L’approccio più comune a tale domanda
probabilmente è di trincerarsi dietro a concetti assolutori quali
“l’inevitabilità del male, degli orrori e della brutalità, elementi
sempre presenti nella storia umana”. Si tratta di un approccio più che
naturale perché preserva dal porre troppi interrogativi e troppe scomode
domande, dal sentirsi chiamati/e in causa: è quel fatalismo che in
qualche modo consente di tirare avanti nonostante che attorno a noi ci
sia una società in disfacimento.
È quell’accettazione, se pur passiva nella stragrande maggioranza dei
casi, dello status quo, perché tutto sommato in qualche modo si finisce
per andare avanti: ma”ognuno solo, per una strada sua”.
Noi invece, da militanti di un’organizzazione politica che aspira a un
mondo diverso dall’attuale dove il capitalismo non sia l’unico e ultimo
universo possibile, non crediamo al fatalismo, pensiamo che gli
accadimenti della storia umana hanno sempre (o quasi) delle cause ben
precise, a volte intrecciate tra loro in modo così complesso da essere
difficilmente identificabili.
Sul genocidio in corso a Gaza ci sono infatti delle cause ben precise,
nonché delle responsabilità molto chiare, come più volte abbiamo
evidenziato nei nostri documenti e più recentemente nel comunicato “Né
con Netanyahu, né con Hamas!”, pubblicato a ottobre 2023 e consultabile
sul nostro vecchio sito
(https://alternativalibertaria.fdca.it/wpAL/blog/2023/11/25/ne-con-netanyahu-ne-con-hamas/).
Così come non bisogna dimenticare che, accanto ai responsabili di questo
massacro, ci sono anche degli esseri umani che in quel contesto di
guerra, da decenni e non da oggi, si oppongono ai nazionalismi e ai
militarismi mortiferi, per abbracciare l’idea di una società in cui
persone di diversa estrazione religiosa (e non) ed etnica possano
coesistere pacificamente: in primis i Refusnik, giovani che rifiutano di
svolgere il servizio militare, ancora obbligatorio per legge in Israele,
pagando la loro coraggiosa scelta con il carcere.
Come d’altronde accadde anche nella Germania nazista, laddove piccole ma
consapevoli minoranze tra loro isolate rischiarono la propria vita per
salvare decine di ebrei e di perseguitati politici.
Purtroppo al riguardo la storiografia è largamente omissiva e sui
principali mezzi di comunicazione è molto difficile trovare la
testimonianza di queste storie, proprio perché ci dicono che è possibile
scegliere di non essere complici di un sistema che si ritiene criminale.
A tal proposito riportiamo in particolare le parole di uno di questi
giovani, Yuval Pelleg, che proprio in questi giorni insieme a un’altra
diciottenne, Ayana Gerstman, hanno rifiutato l’arruolamento nell’IDF
(https://www.pressenza.com/it/2025/07/due-diciottenni-israeliani-finiscono-in-prigione-per-il-rifiuto-di-partecipare-al-genocidio-a-gaza/):
“Nonostante tutti i suoi crimini, le nazioni del mondo continuano a
rifornire la macchina di distruzione israeliana con armi e
finanziamenti. Presto sarò imprigionato per il mio rifiuto di
partecipare al massacro e mi appello a voi, popoli del mondo:
intensificate la lotta! Unitevi a me e resistete alla distruzione e al
genocidio con tutta la vostra forza.
Infine, voglio ricordare che qui non si tratta di me. Si tratta della
distruzione, delle persone uccise, del dialogo che è stato portato
all’estinzione e della giustizia che è stata sepolta sotto le macerie di
Gaza.
Mi sforzo di prendere parte a una lotta per la vita, l’uguaglianza e la
libertà. In questa lotta, una cosa è chiara: io e l’esercito siamo agli
antipodi.
Ecco perché mi rifiuto di arruolarmi.”
Proprio nei giorni in cui a Gaza si consumava una delle pagine più
orribili della recente storia umana sempre in Medio Oriente, ma a
migliaia di km più a est, quelle armi che a Gaza vengono ancora usate su
esseri umani in cerca di cibo, venivano invece bruciate in un rogo
simbolico da militanti del PKK. Lo storico evento, che segue l’appello
di Ocalan alla fine della lotta armata e il successivo scioglimento del
PKK decretato dal congresso del partito, si è svolto l’11 luglio; il
nesso con ciò che succede a Gaza è stato richiamato da Bese Hozat,
co-presidente dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), che
leggendo nel corso della cerimonia il comunicato del “Gruppo per la pace
e la società democratica” ha sottolineato come la distruzione volontaria
delle armi del PKK costituisce un “gesto di buona volontà e
determinazione” e che “vista la crescente pressione fascista, lo
sfruttamento in tutto il globo e il bagno di sangue in corso in Medio
Oriente i nostri popoli hanno più che mai bisogno di una vita pacifica,
libera, uguale e democratica”.
Sicuramente vi sono molti altri fattori che hanno portato il PKK a
compiere questa scelta, tra cui non si può non citare la presa d’atto
del divario ormai incolmabile in termini di tecnologie militari tra lo
stato turco e le militanti e i militanti curdi.
Ad ogni modo si tratta comunque di una scelta coraggiosa con cui il
movimento curdo cerca di uscire da una situazione di stallo, dimostrando
ancora una volta di costituire oggi una delle prospettive rivoluzionarie
più avanzate a livello mondiale, probabilmente insieme all’esperienza
zapatista in Chiapas, portata caparbiamente avanti dall’EZLN tra mille
difficoltà.
E allora mentre noi in Europa registriamo un continuo peggioramento
delle condizioni della classe lavoratrice, con il disfacimento di ogni
significativa opposizione politica e sociale, ciò che succede in
Kurdistan deve stimolarci a trovare nuove forme e nuovi linguaggi, a per
ripensare le modalità di trasformazione rivoluzionaria. E’ sempre più
urgente uscire dal disorientamento e dall’immobilismo: è sempre più
necessaria una proposta politica e sociale internazionalista, che superi
le ormai consunte barriere corporative e nazionali, che sappia tornare
in sintonia con la classe lavoratrice e con gli strati proletari di
tutti i paesi per porre un efficace argine alla degenerazione del
sistema capitalistico in una competizione tra potenze imperialiste
foriere di sanguinosi scontri armati per il controllo del mercato
mondiale.
Una proposta che sia in grado di dare risposte anche organizzative a un
diffuso ma ancora evanescente sentimento di indignazione per
trasformarlo in consapevolezza generalizzandolo a contesti più ampi,
combattendo la rassegnazione e iniziando a vincere le sfide che il mondo
contemporaneo ci pone.
https://alternativalibertaria.fdca.it/
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