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(it) Italy, Sicilia Libertaria #459: Dazi - I PREDATORI (ca, de, en, pt, tr)[traduzione automatica]
Date
Mon, 9 Jun 2025 08:48:46 +0300
La vicenda dei dazi trumpiani tiene in apprensione il mondo intero,
disorientato nello stesso tempo dai continui e repentini cambiamenti di
scelta del presidente Usa, che nel giro di poche settimane ha mutato
idea più volte, con un avanti e indietro che probabilmente ha anche
favorito ricche speculazioni borsistiche. L'obiettivo principale della
virata protezionistica americana è senza dubbio quello di contrastare
l'ascesa cinese e di ridare fiato all'industria manifatturiera
nazionale, eppure si è acceso un dibattito che contrappone protezionisti
e liberisti, cioè un capitalismo cattivo e uno buono. Da una parte Trump
che, di volta in volta, è definito arrogante, sbruffone, bullo, pazzo,
esponente di un capitalismo ritornato ai suoi più smaccati spiriti
animali; dall'altra quasi tutti i governi europei, equilibrati e
paladini di un capitalismo liberale e liberista che mira a diffondere
merci e benessere (e profitti), nonostante qualche distorsione sempre
emendabile. Tuttavia liberismo e protezionismo non sono altro che i due
poli della stessa logica capitalistica che ha bisogno sia di apertura
che di chiusura dei commerci con l'estero, al fine di incentivare i
profitti e sviluppare l'economia. Per non dire che le economie più forti
tendono sempre a imporsi con la chiusura interna alle merci straniere e
l'apertura estera alle proprie. Liberisti e protezionisti allo stesso
tempo! La storia del capitalismo è piena di situazioni del genere, un
mix di protezionismo e liberismo teso a garantire l'affermazione delle
proprie merci sui mercati mondiali. Protezionisti nel momento della
nascita e del decollo dell'industria nazionale sono stati quasi tutti i
paesi europei ed extraeuropei, dall'Italia al Giappone, dalla Germania
agli Stati Uniti. Protezionisti, e in gran parte interventisti,
attraverso politiche governative al fine di consolidare
l'industrializzazione. Liberisti verso l'esterno quando le proprie merci
si potevano affermare sui mercati. L'Italia sotto questo aspetto ha una
storia da manuale. Furono i liberali di fine Ottocento a promuovere una
politica protezionistica per la nascente industria (per inciso
provocando quegli squilibri territoriali che ancora oggi vanno sotto il
nome di questione meridionale); quando poi l'industria si è consolidata
si è cominciato a pretendere la libertà per le proprie merci. Che cosa è
stata del resto la tanto decantata globalizzazione se non la possibilità
per i grandi capitali finanziari di accaparrarsi risorse in giro per il
mondo, e continuare a sfruttare a piacimento con nuove e più sofisticate
forme di colonialismo quello che oggi definiamo (un'altra volta con
sapore eurocentrico e razzista) il sud globale? Allora liberismo e
protezionismo non sono altro che finzioni di un sistema predatorio che
nel depredare crea squilibri e poi cerca di risolverli con nuovo
sfruttamento e, se non ci riesce, con le guerre, come quelle in atto e
quelle che vengono minacciate nel nostro orizzonte.
Schierarsi per il liberismo o per il protezionismo è dunque un falso
problema, ma neppure si può immaginare o prefigurare la possibilità che
questo nostro sistema, presunto intrinsecamente democratico, abbia in sé
gli strumenti per potersi ravvedere e imboccare una via diversa. Come
sembra proporre, in un articolo apparso su Il Manifesto, Emiliano
Brancaccio che richiama i cosiddetti social standard, cioè "proposte
avanzate dall'Ilo (l'agenzia dell'Onu per lavoro e politiche sociali),
regole presenti nei Trattati Ue e clausole contenute nello statuto del
Fondo monetario internazionale", che consisterebbero "in una limitazione
dei commerci con quei paesi che attuino politiche di competizione al
ribasso sui salari, sulle condizioni di lavoro, sui regimi di tutela
ambientale e sanitaria". Pur condividendo le rispettabilissime analisi
di Brancaccio, non si può esordire "Moriremo liberisti o protezionisti?
Stando all'agenda politica, sono queste le uniche corde alle quali
possiamo oggi scegliere di impiccarci", e poi nello stesso articolo
prospettare una soluzione tutta interna al capitalismo. Per la
contraddizione che non lo consente, si potrebbe dire. Innanzitutto quali
dovrebbero essere le forze politiche, anche di sinistra, che oggi
sarebbero capaci di portare avanti una simile battaglia? E poi questo
sistema permetterebbe di compiere riforme di tale portata in modo
indolore, senza una forza d'urto adeguata, una mobilitazione diffusa e
radicale? E' ragionevole dubitarne. Ma la vera questione credo sia
un'altra. Si può ancora adesso, di fronte ad una gravissima crisi
ambientale e climatica, continuare a ragionare in termini di limitazioni
commerciali, di regolazione dei mercati, che continuerebbero comunque a
funzionare secondo logiche competitive, nell'ottica di un continuo
sviluppo che non può fare altro che accaparrare e depredare sempre nuove
risorse? Non è sufficiente, come sembra credere Brancaccio, mettere
qualche vincolo e sperare che vi siano governi indipendenti e autorevoli
per farli rispettare.
Cosa dovrebbe fare pertanto chi, come scrive sempre Brancaccio "intenda
rappresentare le istanze del lavoro, dell'ambiente e della salute
collettiva"? Certamente non può accontentarsi di introdurre regole, più
o meno stringenti, all'interno del sistema. Occorre fare anche uno
sforzo di immaginazione e prospettare se non delle soluzioni almeno
delle indicazioni che fuoriescano dal sistema e percorrano strade
realmente diverse. E queste non mancano. In un mondo invaso da merci, la
maggior parte nocive o inutili, non sarebbe il caso di lottare per una
diminuzione delle produzioni piuttosto che per tenere aperte fabbriche o
per impiantarne di nuove? E in un mondo in cui le merci circolano
vorticosamente da un capo all'altro provocando inquinamento e alterando
il clima non sarebbe il caso di riorientare la produzione e la
distribuzione dei beni su scala locale? Incentivare le produzioni utili,
non dannose per l'ambiente e le persone, lo scambio diretto, paritario e
solidale? In un momento come quello attuale di riorganizzazione del
capitalismo a cui hanno dato il nome di transizione (ecologica,
digitale) per mascherare che tutto avviene sempre secondo le logiche
estrattiviste e accaparratorie consuete - l'interesse smaccato di Trump
per i minerali ucraini potrebbe essere la perfetta esemplificazione di
cosa significhi realmente transizione- si dovrebbe con più lucidità
sottrarsi alla narrazione dominante, non imitarne le soluzioni
sistemiche, seppure queste ci appaiano ragionevoli, mentre il
ribaltamento delle logiche ci sembri illusorio.
Nella sua poesia Gli alberi, pubblicata nel 1973 nella raccolta Questo
muro, Franco Fortini si sofferma sui disastri della civiltà industriale
che distrugge, affoga, inquina; nel finale rivolgendosi metaforicamente
alla figlia la invita a non disperare ma a sapere. Ecco, la
consapevolezza almeno dovrebbe essere il nostro punto fermo da cui
partire o ripartire per impedire che questo sistema ci annichilisca tra
bombe e intelligenze artificiali.
ANGELO BARBERI
https://www.sicilialibertaria.it/
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